Ho davanti agli occhi una parete giallognola, a tratti sbiadita, cesellata di finestre dal ritmo regolare. Non sono finestre qualunque, sono quelle del carcere di via Coroneo.
Respiro con più foga, cercando l’aria dentro la stanza chiusa della palestra, corro sul tappeto meccanico.
E’ quasi l’imbrunire, la luce diagonale del sole disegna giochi geometrici di luci ed ombre sulla facciata che ho di fronte.
Affronto la fatica dell’allenamento aerobico evitando di guardare le spie luminose della macchina, mi sembra che il tempo scorra più veloce e con esso la fatica, se distolgo la mente.
Guardo dinnanzi e incrocio lo sguardo con quello di un carcerato. Anche se siamo distanti, percepisco che lui osserva, come in un acquario, noi che corriamo sui tapis roulant.
Passa il suo tempo lì, lo vedo sempre. Una volta, d’estate, credo mi abbia salutato con la mano.
Penso che siamo entrambi in gabbia, lui per un reato, io per necessità.
A volte mi pare di poter toccare con mano i pensieri dei detenuti, l’anelito d’aria che i loro volti, le mani cercano al di fuori delle sbarre che li contengono.
Anche noi siamo molte volte prigionieri, quindi siamo simili.
Un gabbiano attraversa il cono di luce argentea che lambisce la finestra del mio carcerato, lui allunga la mano come a volerne toccare le ali candide.
E’ un’immagine meravigliosa e intensa.
Il tempo della corsa è finito, il detenuto lo vede e mentre scendo dal macchinario la sua sagoma sparisce nell’ombra della cella.
Paradita
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