AI BORDI DELLE MIE STRADE

Ai bordi delle mie strade non ci sono fiori, nemmeno erbacce, quelle che sfidano la durezza dell’asfalto, impunite, e riescono a mettere radici in ogni dove. Il paesaggio urbano è solo urbano, con poca, pochissima natura. Anche i cani che incontro hanno perso la loro naturalezza, vanno in giro con l’impermeabile griffato in pendant con quello del padrone. Mi sembrano un po’ tristi pure loro, perché umanizzandosi, hanno ricevuto anche le nostre frustrazioni, insieme all’impermeabile.

Procedo per la mia via, rammento il tempo in cui, bimba, percorrevo questa stessa strada, ora d’asfalto, che un tempo fu campagna. Ricordo i papaveri, l’erba alta, i fiori di campo. Amavo percepire i colori cambiare con il progressivo entrare dell’estate sulla primavera e dell’autunno poi.

Dovremmo tutti avere la possibilità di regalarci del tempo, il tempo del ricordo.

La campagna emiliana ha riportato in vita mia nonna Lina. Quando la strada non conosceva l’asfalto, lei lavorava nel campo con le cugine, in quelle belle famiglie in cui si stava tutti insieme. Alla sera tornava a piedi nel suo appartamento, quello che mi ha lasciato e dove oggi vivo, aggiungendo una passeggiata alla lunga giornata nei campi.

Non ho memoria di avere mai visto mia nonna depressa, arrabbiata o triste. Da bambina, spesso, le chiedevo se fosse felice, se non le mancasse di visitare altre città, altri luoghi. Lei mi rispondeva sempre che era felice così, a tagliare i cespi di insalata, a falciare l’erba a preparare gli ortaggi da vendere al mercato.

E’ venuta con me e la mia famiglia anche in Iran, per stare con noi, ma si capiva benissimo che quello non era il suo posto. Le mancava troppo il profumo delle zolle dopo la pioggia, le chiacchiere con le cugine mentre mondavano il radicchio dall’erba per la vendita. Le mancava la sua vita, fatta di semplici cose vere.

Crescendo la osservavo invecchiare, il corpo un po’ piegato dagli anni trascorsi a portare pesanti cassette sulla schiena, a stare lunghe ore inginocchiata sul campo, il suo corpo era più inarcato ma lo spirito sempre cristallino, fiero.

Spesso, quando andavo a trovarla, mi raccontava i suoi sogni o degli spiriti che venivano a farle visita alla notte. Al mattino, prendeva il “Libro dei sogni”, interpretava il messaggio ricevuto e andava a giocare i numeri del lotto in latteria e, molto spesso, vinceva.

Nonna Natalina è la campagna, il profumo dell’erba, la rugiada del mattino, i suoi fantasmi amici e le mani bruciate dal sole ma cariche di vita.

Queste sono le mie radici. Ritrovo in me quei fili di erba, i fiori dei campi, la freschezza della brina e il respiro caldo della terra al sole di giugno.

Qualche volta ho smarrito la strada, perdendomi in luoghi che non mi appartenevano. Ma, come mia nonna sapeva fare, ho sentito le Mie voci che mi chiamavano, mi sono girata e ho ritrovato la strada di casa, della mia vera casa.

Paradita

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POLAROID DI NOVEMBRE

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Ho davanti agli occhi una parete giallognola, a tratti sbiadita, cesellata di finestre dal ritmo regolare. Non sono finestre qualunque, sono quelle del carcere di via Coroneo.

Respiro con più foga, cercando l’aria dentro la stanza chiusa della palestra, corro sul tappeto meccanico.

E’ quasi l’imbrunire, la luce diagonale del sole disegna giochi geometrici di luci ed ombre sulla facciata che ho di fronte.

Affronto la fatica dell’allenamento aerobico evitando di guardare le spie luminose della macchina, mi sembra che il tempo scorra più veloce e con esso la fatica, se distolgo la mente.

Guardo dinnanzi e incrocio lo sguardo con quello di un carcerato. Anche se siamo distanti, percepisco che lui osserva, come in un acquario, noi che corriamo sui tapis roulant.

Passa il suo tempo lì, lo vedo sempre. Una volta, d’estate, credo mi abbia salutato con la mano.

Penso che siamo entrambi in gabbia, lui per un reato, io per necessità.

A volte mi pare di poter toccare con mano i pensieri dei detenuti, l’anelito d’aria che i loro volti, le mani cercano al di fuori delle sbarre che li contengono.

Anche noi siamo molte volte prigionieri, quindi siamo simili.

Un gabbiano attraversa il cono di luce argentea che lambisce la finestra del mio carcerato, lui allunga la mano come a volerne toccare le ali candide.

E’ un’immagine meravigliosa e intensa.

Il tempo della corsa è finito, il detenuto lo vede e mentre scendo dal macchinario la sua sagoma sparisce nell’ombra della cella.

Paradita

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OMAGGIO A NADIA

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E’ l’argomento social di oggi, commentare la puntata delle Iene di ieri sera, 1 ottobre, dedicata al ricordo della scomparsa Nadia Toffa.

Non ho visto la trasmissione ma sono andata a scaricare il video del suo messaggio di saluto.

Toccante. Impressionante. Tenero. Vero.

Vedere la vita assottigliarsi sul volto della amata conduttrice che non ha mai perso la gioia di vivere e di combattere, mi hanno procurato sensazioni contrastanti.

Da un lato l’ovvia reazione di dispiacere, quel “perché” che sempre si para davanti agli occhi quando la malattia colpisce e, allo stesso tempo, meraviglia per la profondità del messaggio, per l’assenza di quella rabbia cieca per una sentenza ingiusta, assolutamente ingiusta.

La verità. Un concetto difficile da vivere nel nostro quotidiano, eppure, vivere in verità è quanto di più liberatorio esista. Ieri, guarda le coincidenze!, ho vissuto anche  io un momento di verità totale “costi quel che costi” che mi ha fatto stare davvero bene.

La paura ci mette dentro prigioni inespugnabili dove bisognerebbe avere il coraggio di non creare limiti inutili o “seghe mentali”.

Così facendo il saluto di Nadia risuona pieno e vibrante quel “Non importa quanto vivi ma come vivi“.

La qualità del nostro passaggio qui, è nelle nostre mani. Inutile nascondersi, fingere o demandare ad altri, persone, situazioni, la NOSTRA felicità.

La magia è vivere ADESSO. Iniziamo da subito.

Paradita

 

 

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PROFUMO DI MATITE

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Aprire gli occhi all’alba e trovarsi ancora immersi nella notte, mi stupisce sempre.

I ritmi di casa sono scanditi dalla regolarità di un metronomo, gli stessi movimenti ripetuti quotidianamente, come fossero una danza: il dito interrompe il trillo analogico della sveglia, i piedi si assicurano dimora nelle ciabatte, gli strusciamenti delle Gattonzole mentre preparo loro le ciotole con il cibo, l’aroma del caffè che si diffonde per casa, come a voler risvegliare ogni atomo presente.

Mi siedo dinnanzi alla tazza fumante e poso lo sguardo sulla finestra che ho di fronte, la mia quinta teatrale sulla giornata nascente.

Oggi la luce rosea tinteggiata dalle lingue biancastre di nubi distese come fossero lenzuola, ha tradito la data del calendario, promuovendo piuttosto richiami primaverili. L’autunno messo da parte.

La danza rituale procede sicura nei movimenti che riconosco come parte di me, arrivo al secondo caffè, quello meno goduto perché sorseggiato in fretta al bar, prima di dare inizio alla giornata lavorativa.

Pochi metri mi separano dalla bocca di metallo che legge il mio ingresso nel mondo produttivo, quando passo davanti al negozio di colori. A dispetto degli altri, apre al mattino presto, forse per rifornire gli studenti sbadati dell’istituto d’arte qui vicino.

Ogni mattina è la festa del mio immaginario.

Ad un certo punto, all’improvviso, le narici si inondano del profumo di legno delle matite e di ricordi dolci, quelli della prima fanciullezza, dei primi giorni di scuola dove il mondo è ancora tutto da scoprire e la vita da vivere.

Rammento il pennaiolo, in cui le matite di legno colorate erano ordinate su scala cromatica. Mi piaceva creare il mio arcobaleno ideale, era semplice fino a che restavo nelle sfumature dei pastello, i colori dell’alba e dell’imbrunire che tanto amo ancora, ma mi rimanevano in mano, quasi con fastidio, il grigio topo, il marrone e il nero. Non sapevo mai che farne.

“Perché sprecano colori con questi tre? Ho già la matita che è grigia e mi basta”.

Il mondo dell’immaginazione di allora voleva creare scenari irreali dove grigio, nero e marrone non comparissero ad inquinarne la luce.

Il profumo delle matite mi fa sempre questo effetto, torno voracemente indietro nel tempo.

Anche stamane ho salutato la mia bambina di allora, mentre era intenta a scegliere i colori della sua gioia, le ho sorriso mentre fermavo la mia vita nella bocca di metallo che ha inghiottito il badge di entrata.

Paradita

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ALBEGGIARE

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Stamattina, mentre guidavo nella luce dell’alba, sono rimasta incredula dinnanzi lo spettacolo offerto ai miei occhi, sfumature tenere di lilla, di acquerellato azzurro, tocchi di arancio appena sfumati, una tavolozza di colore che rendeva anche l’autostrada un tracciato interessante.

“Vivere è un dono eccezionale” , ho pensato mentre la luce delicata lambiva le retine arrivando al cervello con un suono dolce di quieta allegria.

Il risveglio è il momento del giorno che preferisco, posso sempre illudermi di vivere una giornata memorabile, anche se il più delle volte, non è così.

Le mani sul volante, la mente si è posata sulle note di un tango che custodisco in testa.

Il corpo diviene albero, le fronde risuonano corali al passaggio del vento, emettendo la loro melodia verde. Sto diventando tronco, quercia, radici solide, chioma aperta come un ombrello sulle intemperie.

Ripenso alla fatica, alla passione spese per imparare, nel tentativo di forgiare il metallo di un corpo che non sapeva essere flessuoso e di una mente incapace di lasciarsi andare.

Il vento sibila ancora tra le fronde giocando con le foglie, a volte festoso, a volte crudele, quando strappa i piccioli dai rami, costringendole all’ultimo beccheggio nell’aria.

Sono foglia pure io, mille volte caduta dal ramo, mille volte rinata. Sempre diversa, come un fiocco di neve.

Il tango suona la nota finale. Pausa. Sospensione. Il rosa dell’alba si satura di arancio e la giornata si accende.

Vedo le mani sul volante. Sono arrivata a casa.

Paradita

 

 

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La metafora dell’ippocastano

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Manca solo il viale alberato di ippocastani e sono a casa. Agosto sta volgendo al termine, così come questa strana estate.

Fino a pochi giorni fa, alla stessa ora, il sole era ancora ben visibile in cielo. Adesso, invece, è come se si stesse inchinando a far posto al delicato velo dell’imbrunire, una riverenza galante alla notte in arrivo.

Sono dentro il tunnel verde, la strada è sgombra, sono tutti ancora in vacanza, così posso godermi in solitudine il rientro. Le fronde mi sovrastano, ricchissime di foglie dove posso scorgere, abbondanti, anche i frutti, piccole sfere cariche di pungiglioni, custodi delle castagne.

Mi prende una gioia strana, perché, distratta dai miei pensieri, mai avevo realmente osservato la vita di questi alberi maestosi. Ho giocato sempre con le loro foglie cadute, saltando nei cumuli affastellati sul marciapiede, d’autunno, perché in questo viale c’è il liceo che ho frequentato da ragazza.

Oggi percepisco il mutare del verde che da una gradazione satura di smeraldo, sta volgendo a sfumature ocra, a partire dalle estremità.

Silente e piccola, alla base di questi tronchi immensi, mi si è parata davanti l’immensità della vita e dei suoi cicli.

Uno di quegli alberi sono io, adesso, nella mia maturità. Una fronda ricca, di un verde profondo che porta con sé i frutti maturati durante la primavera e l’estate. Le foglie nel loro ciclo conclusivo, i frutti ancora da maturare. Fusto e radici ben solide nel terreno.

Ho percorso tutto il viale con lo sguardo verso l’alto, ad ammirare tanta bellezza, il senso di esistere di questi alberi opulenti.

Ho sorriso a me stessa con gratitudine e grazia. Non temendo più l’ingiallire delle foglie.

Paradita

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SEI QUI

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Ricordo quella seduta di gruppo nella quale, dopo la lettura di un mio verbale, mi venisti vicino dicendomi “Ho una cosa da proporti” ed io, curiosa come non mai, aspettavo che l’incontro finisse per ascoltare quello che avevi da offrirmi.

“Scrivi per questo bimestrale, io lo faccio da anni. Alla redazione siamo tutti amici, è un bellissimo momento di scambio, tu potresti farne parte”. Mi scrutasti con i tuoi occhi di ghiaccio caldo, il volto segnato da solchi profondi che raccontavano di una vita spesa al limite.

Ti ho guardato basita, emozionata per una proposta che non pensavo di meritare, scrivere per una rivista, un onore per me, la realizzazione di un sogno.

“Perché io?” ti chiesi, mi rispondesti nel tuo modo schietto “mi piacciono i tuoi verbali, voglio leggere altre cose tue”. Arrossii.

Arrivò il giorno in cui mi comunicasti l’argomento su cui lavorare.

Ricordo che al primo articolo non centrai il bersaglio, nel senso che non scrissi di me, lo feci in terza persona e non era questo il modo giusto. Con il tuo fare diretto mi dicesti di riprovarci. Lo feci con l’idea che, probabilmente, non ci avrei azzeccato nemmeno questa volta, ma non andò così.

Il pezzo piacque alla redazione che mi diede il più caloroso benvenuto pubblicandolo in prima pagina.

Sei venuto da me per dirmelo con uno sguardo così espressivo da far sembrare impossibile che un’iride tanto trasparente potesse farsi fiamma. Ma non erano i tuoi occhi a bruciare, eri tu, il fuoco, il caos, la vibrazione incontrollata, il pensiero. Un uomo straordinario che non sapeva di esserlo.

Sono stati mesi dolci di parole, di immagini da raccontare, di incontri estivi di redazione nel giardino o nella piazzetta della Città Vecchia, tutti insieme, legati da vite dai colori tanto diversi ma accomunate da un filo invisibile di fragilità, di umanità.

Ho continuato con gli articoli, sono uscita dal buco nero in cui stavo quando ci siamo incontrati. Le parole sono diventate più morbide, la luce più delicata, soffusa.

Scrivo anche adesso perché te lo devo, perché con quella tua domanda di un anno fa, mi hai regalato una gioia che mi era lontana.

Le tue parole mi mancano, mancano a tutti noi.

Anche ora, in questo preciso momento, è come se mi fossi accanto e leggessi insieme a me questo nostro ricordo, vedo le tue mani consumate in eterno movimento, la tua pelle incisa dal tempo, percepisco quel tuo odore di sigaretta che ti accompagnava sempre.

Ci sei ancora. Tornano le tue parole e le tue risate.

Le mani tremanti dall’emozione quando non ti sentivi abbastanza e arrossivi dall’imbarazzo quando ti facevo i complimenti per quanto scrivevi. Mi guardavi paonazzo, per un attimo senza parole e poi scoppiavamo a ridere insieme.

Sono stati momenti, ma la vita vive dentro a questi attimi e lì incide ricordi e emozioni che resteranno per sempre.

Sei qui, nella trama ancora da scrivere, nelle parole ancora da dire, sei qui.

Paradita

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Sit tibi terra levis

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E’ una bella giornata ventosa, oggi. Tipicamente triestina. Il cielo fortemente azzurro, pennellato qua e là dei filamenti biancastri dei cirri. La bora canta, danzando con le foglie nella sua festa autunnale.

Ci sarebbe di che essere felici,  rannicchiati dentro al proprio piumino, con il berretto ben calato sulla fronte a godersi le raffiche pungenti.

 

Ieri ho pianto a lungo.

Oggi ho fatto pace con il dolore e l’Anima prova una strana leggerezza .

E’ difficile comprendere, per quelli che restano, l’atto di libertà estremo.

E’ difficile ma bisogna accettarlo.

Un caro Amico ha portato il suo sguardo di giada lontano da questo mondo, lontano dal suo mal di vivere, lontano da ciò che non riusciva più a sostenere. Ha scelto di andarsene nella Natura, donando il suo corpo al Carso, agli alberi che curava, alla macchia di sommaco, ai muschi.

Lo immagino finalmente libero. Ed è così che lo voglio ricordare.

Buon viaggio, ovunque tu sia.

Paradita

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LA POTENZA DI ESISTERE (cit.)

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Come è difficile scrivere queste parole, oggi. Forse sarebbe più opportuno stare in silenzio. Ma non posso farlo, sento questa urgenza che preme e la assecondo.

Un amico che fa perdere le sue tracce, come se l’essenza si fosse improvvisamente dissolta in micro particelle di umidità.

Fatico ancora a credere alla notizia che mi arriva da più quotidiani e che ho potuto verificare, cercando, ancora inconsapevole, l’amico scomparso.

Il canovaccio istrionico della Vita ti arriva in faccia senza preavviso.

Dopo tanto hai finalmente scollinato lontano dai tuoi buchi neri e Lei viene a riprenderti per ricordarti che devi fare attenzione, la guardia non devi mollarla mai.

La Vita ti guarda ed è sempre lì, pronta a metterti alla prova.

Devo farmi coraggio, quest’oggi, per non tirare i remi in barca e rassegnarmi a questo moto ondoso fuori controllo.

Ne ho visti tanti cadere come birilli, sopraffatti dal quadro esistenziale che, dopo una vita, gli si è messo a nudo dinnanzi agli occhi.

La potenza della verità può essere insostenibile se la forza origina da comportamenti atti esclusivamente a placare il dolore, non a sedimentarlo, non ad analizzarlo, non a viverlo fino in fondo.

Il male passa, così come passa il bene.

Oggi è una giornata di dolore, una giornata cupa perché le storie di vita raccontano, come in un triste ritornello, che illudersi non basta e scappare non è mai la soluzione.

Prendo lo specchio e osservo le rughe che mi segnano il volto, vedo gli anni che hanno scolpito il loro passaggio su di me e mi rendo conto, forse per la prima volta, che vivere è solo un atto di coraggio.

Adesso ho la volontà per resistere e il desiderio di farlo. Scappare non è ammesso e nemmeno nascondersi. Si deve guardare quello che c’è, quello che si è.

Il Gioco è questo.

Ringrazio quella me che non parla quasi mai ma che al momento giusto si è sempre fatta sentire, raccontandomi che domani sarà una giornata migliore.

Paradita

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La potenza di esistere

 

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CUORE PREZIOSO DEL CARSO.

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E’ una terra dura, aspra e forte. Come i suoi abitanti. Poche migliaia di persone che vivono sulla lingua di terra che abbraccia la città e si specchia nel Golfo di Trieste.

I “carsolini” sono gente fiera, lungamente e duramente provata dalle vicende di questo lontano lembo d’Italia. Molti di loro lavorano la terra, dedicando anima e corpo a quella terra rossa, incastonata di pietre bianche e macchia silvestre.

Hanno vita dura, come tutti i contadini, ma, forse, un po’ più dura. La terra è grassa e generosa, ma bisogna domarla e, per farlo, occorrono volontà e tenacia fuori dall’ordinario. Poi la terra è prodiga di doni, ma solo con coloro che le hanno dimostrato dedizione, rispetto e amore.

Così sono loro. Cocciuti, tenaci, duri e riservati.

Ho conosciuto da vicino una famiglia del Carso. E’ la prima volta che ciò mi accade, a testimonianza di quanto la comunità dell’altipiano triestino preferisca restare coesa all’interno di se stessa, proteggendo la sua tipicità.

I “miei” carsolini hanno regalato una lezione di vita che raramente dimenticherò.

Una famiglia che ha superato un numero notevole di prove, non perdendo mai la sua unità, anzi, uscendone di volta in volta, maggiormente coesa, solida, cementata. I problemi di una vita intrecciati come maglie di uncinetto dentro il filo del tempo.

Mai una caduta, mai un dubbio, la gestione del dolore condivisa e sopportata, come si condividono e sopportano i segni sulle mani, evidenza del lavoro nei campi.

Ho pianto ieri sera, per una commozione grandissima, dinnanzi a una famiglia che ha saputo superare con coraggio l’ennesimo ostacolo, amandosi, gli uni gli altri, se possibile, ancora di più.

Voglio trovare anche io quella terra rossa, carica di ferro, di sudore, di zolle durissime da arare ma così generosa nei suoi doni.

Intanto la lezione di vita è con me.

Imparare a trasformare ogni prova in una nuova occasione per crescere e per migliorarsi.

Lottare per mantenere vivo e vibrante il legame d’amore in cui si crede e in cui ci si ritrova.

Avere coscienza che l’amore coniugale, filiale, amicale o altro è sempre frutto di un grande lavoro e di una grande volontà di non arrendersi.

Grazie mie foglie di sommaco, mie zolle rosse, mie pietre calcaree. La lezione, adesso, è dentro di me.

Paradita

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